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domenica 4 marzo 2018

In mezzo al turbinio della vita la neve ci ha costretto a fermarci. Niente scuola, niente lavoro, niente macchina. Ha aperto un piccolo spazio al noi, al camminare guardandosi attorno, meravigliati dalla bellezza di tutto quel bianco che ha ridisegnato il paesaggio di candide e ovattate sfumature, che ha incorniciato Staffolo, il nostro piccolo borgo.






Ed io non ho resistito, ho sfidato la neve uscendo con Diego per godermi questa atmosfera che capita sempre più raramente. Ho infilato il piccino in fascia, ho messo la giacca Wear Me adatta per portare, comoda, calda, antivento e impermeabile e sono uscita con tutta la mia famiglia. Perché avere un bimbo piccolo non impedisce di muoversi liberamente e grazie al babywearing ho scoperto un mondo che rispecchia perfettamente la mia personalità. Coccole cuore a cuore e libertà di movimento, il bimbo è tranquillo e dorme al calduccio, io posso muovermi, camminare, usare la mani, e posso anche passeggiare nella neve. 





Abbiamo fatto un giro fino al centro storico passando per i giardini pubblici fino ai banchetti, un luogo magico dove ammirare tutta la Vallesina immersa nella neve, fino al mare. Abbiamo attraversato poi Porta San Martino e raggiunto i vicoli, la parte di Staffolo che amo di più.







Enea correva felice senza sosta tanta era la gioia di immergersi in tutto quel bianco. Dopo un breve giro fra i vicoli siamo usciti dal centro attraversando Porta San Martino e poi ci siamo diretti verso casa più allegri di quando siamo usciti. Perché una passeggiata all’aria aperta mette inevitabilmente allegria, rinfresca la mente e con la neve diventa pura magia! 



Ho girato anche un piccolo video, se vi va cliccate nell'immagine. 


Questa passeggiata mi ha ricordato un libro di Marina Piazza che ho letto qualche tempo fa. Si intitola “Un po' di tempo per me” e parla, fra le altre cose, del tempo dell'esperienza, parola che deriva dal latino ex-per-ire "passare attraverso". Questo è il tempo sottratto al produttivo e nella Grecia antica possederlo era il segno più forte di uno status di cittadino a pieno titolo (in quanto escludeva donne e schiavi). Nella tradizione dell'antichità classica si declinava come cura di se, come superiore saggezza (non solo tempo di meditazione e riflessione ma anche di cura del corpo, delle relazioni, di ginnastica, di attenzione all'alimentazione). Questo tempo è prezioso È un regalo meraviglioso della vita. Non trovate?

Info utili

  • Nelle foto indosso la giacca Wear Me, una giacca tecnica adatta per portare con tessuto antivento e antipioggia, che protegge dal freddo ma non è ingombrante, leggera e calda. 
  • Per scrivere questo post mi sono ispirata al libro "Un po' di tempo per me" di Marina Piazza 
  • Se siete interessate al babywearing vi consiglio il libro "Portare i piccoli" di Esther Weber


giovedì 28 settembre 2017

Ho ripreso a camminare
A respirare
A cucinare
Faccio yoga
Seguo un corso pre-parto
Aiuto mio figlio a fare i compiti
Lo vado a prendere a scuola
Preparo il pranzo
Chiacchieriamo seduti a tavola 
Leggo libri
Mi riposo quando sono stanca
Passeggio quando ne ho voglia



Sono in maternità da poco più di una settimana e sto iniziando a camminare a passo più lento. La gravidanza non è una malattia ma fare un bambino richiede tempo, pazienza, serenità. Cose delle quali si pensa di poter fare a meno ma la natura prima o poi reclama i suoi diritti: una certa calma, dolcezza, disponibilità e amore per il cucciolo che deve nascere. A me è successo di dovermi fermare. Dapprima non volevo, poi ho riflettuto, accettato e in fondo anche apprezzato la decisione premurosa, responsabile e vicina della dottoressa che mi segue in questo percorso. Ed ora si fa spazio sempre di più in me la consapevolezza di voler godere di questo momento, unico nella vita di ogni donna, perché so che fa bene a me e al piccino. 


Non voglio pensare al dopo, ma all'adesso, ad ogni singolo giorno con le sue routine, i suoi momenti inaspettati, la sua luce e i suoi odori. Il mio oggi ha avuto l'odore dell'autunno appena iniziato, delle foglie bagnate dalla pioggia dei giorni scorsi, del mosto che sta fermentando nelle cantine. 




Ha avuto il colore della luce velata di nebbia durante una passeggiata rinfrescante fra le colline di Staffolo. Una luce che non abbaglia ma accarezza e ti fa gioire di stare fuori un'oretta a passeggiare assaporando ancora la bella stagione. Il mio oggi ha avuto il sapore delle giuggiole, un frutto che adoro, e il suono delle parole di un nuovo audiolibro che mi ha proiettato nella mia adolescenza. Il libro è "Nessuno come noi" di Luca Bianchini, letto dallo stesso autore, e racconta del primo giorno di terza superiore di tre ragazzi. La scelta accurata della felpa da indossare, il viaggio in tram dalla periferia al centro di Torino e l'incontro con i compagni di classe e di vita. 

Storie che si intrecciano e mi hanno fatto ricordare il mio tempo, le mie emozioni di ragazza che si apriva al mondo e alle esperienze con un briciolo di spavalderia e tanto bisogno d'amore. Mi sono ricordata la mia classe, i miei professori, i miei compagni, i miei amori e mi è venuta voglia di andar a sfogliare quelle pagine ormai un po' ingiallite per ritrovare una traccia di quella dolce ragazza piena di sogni. Era lo stesso periodo, l'inizio dell'autunno, ed io mi accingevo ad iniziare un nuovo anno scolastico. 


Oggi sono qui ad accompagnare mio figlio in questa bella avventura che è la scuola mentre aspetto che un altro bimbo tra poco nascerà. Non poteva capitarmi un settembre più bello! Perché le stagioni siamo noi. L'autunno non è malinconia perché nei nostri occhi e nel nostro cuore si nasconde tutta la meraviglia del mondo.

Per scrivere questo post mi sono ispirata a questa citazione:
“Le stagioni siamo Noi. L’autunno non è malinconia, perché dovrebbe esserlo? L’inverno non è gelo d’anima, perché dovrebbe esserlo? È tra le nostre ciglia che si nasconde tutta la meraviglia del mondo. Se sappiamo aprire il cuore, se lo faremo davvero, allora la neve ci scalderà come lana e la pioggia ci proteggerà come un abbraccio d’amore.” Selene Pascasi, In attesa di me

e al bellissimo libro: “Amarlo prima che nasca” di Jean-Pierre Relier 

martedì 30 maggio 2017

Vi è sempre un preciso momento in cui l’infanzia finisce.
Questo momento, delicato, difficile, veloce, a volte incomprensibile è raccontato da Erri De Luca in modo magistrale nel libro Montediddio che ho ascoltato su Audible, un'app per audiolibri che è diventata la mia nuova "dipendenza". La voce di Roberto de Francesco, sanguigna, intensa, a volte impetuosa narra le vicende del protagonista in prima persona, usando spesso il napoletano. La musicalità delle parole di Erri De Luca si sposa a perfezione con la struggente sonorità della lingua napoletana. E anche con questa canzone degli Almamegretta che vi consiglio di ascoltare.

Montediddio è un libro che mi ha emozionato
Un libro che è pura poesia
che parla al cuore
con il cuore

Sopra l'abisso dei vicoli di una Napoli degli anni '50, sopra i panni stesi che sbattono contro i muri sporchi e screpolati delle case della povera gente del quartiere di Montediddio, situato sopra Piazza Plebiscito, vi è un terrazzo dove il cielo e la terra si toccano. Qui si svolgono le scene più belle di questo incantevole romanzo di formazione che narra la storia di un giovane tredicenne di cui non conosciamo il nome. Lui narra le sue giornate su di un rotolo di carta bobina da tipografo. Scrive per tentare di fermare quegli eventi che si affollano tutti insieme, scrive per liberarli dal "chiasso del napoletano", per dar loro un ordine e capire cosa ci accade dentro. 



Racconterà del primo lavoro nella bottega del falegname Mast’Errico; del calzolaio ebreo, don Rafaniello e delle sue ali destinate a crescergli dentro la gobba; racconterà della malattia e del lento spegnersi della madre; dell'amore dei suoi genitori e della scoperta del suo primo “ammore” (con due emme, più ''napoletano'' e più carnale). Lei è Maria, una splendida figura femminile che il degrado familiare ha reso già grande. Tutt’intorno si sente il brulichio delle strade di Napoli, "l’unica città del mondo dove la morte si vergogna di esistere". Una Napoli affascinante e decrepita, con i suoi scorci, le sue grida, la sua bellezza e il suo frastuono.

Ad accompagnare questa delicata fase di transizione al mondo degli adulti c'è uno strano oggetto, un "bumeràn" ricevuto in regalo dal padre. Ogni sera il protagonista si allena sul terrazzo del suo palazzo senza tirarlo. Sarà proprio l’esercizio quotidiano a dargli modo di cogliere la lenta metamorfosi del proprio corpo, dei muscoli che prendono forma. Solo nella pagina conclusiva il «bumeràn» viene lanciato dal punto più alto di Montedidio, tra le pirotecniche esplosioni di fine anno. Sarà un lancio simbolico che segnerà il passaggio all'età adulta. Nello stesso momento don Rafaniello prenderà il volo, con le sue ali, e lascerà Napoli. Tutto è intriso di sogno e magia. Ogni fine è un nuovo inizio. Questo è cio che ci dice Erri De Luca, di cui non vedo l'ora di leggere altro e altro ancora.

Vi lascio alcune citazioni:
 "Quando ti viene una nostalgia, non è una mancanza, è presenza, è una visita, arrivano persone, paesi, da lontano e ti tengono un poco di compagnia."

“Allora don Rafanié, le volte che mi viene il pensiero di una mancanza la devo chiamare presenza? Giusto, così a ogni mancanza dai il benvenuto, le fai un’accoglienza. Così quando sarete volato io non devo sentire la mancanza vostra? No, dice, quando ti viene di pensare a me io sono presente. Scrivo sul rotolo le parole di Rafaniello che hanno rivoltato la mancanza sottosopra e sta meglio così. Lui fa coi pensieri come con le scarpe, le mette capovolte sul bancariello e le aggiusta”.


"Dal buio dei lavatoi spunta Maria. I tredici anni suoi sono più cresciuti dei miei, lei già sta in un corpo arrivato. Tre dita sotto il ciuffo dei capelli neri, corti, c’è la sua bocca veloce con le parole, la vedo uscire fuori dallo scivolo delle sue labbra grosse. Il sorriso le taglia la faccia da un orecchio all’altro. Maria sa le mosse delle donne. Sto davanti a lei e mi sento le viscere vuote, una fame di pane, di dare un morso alla stessa fetta di pane e burro. Me l’offre, dico no. Ha scoperto che mi alleno col bumeràn, è curiosa. Mi sente salire, passare davanti alla sua porta. Si avvicina, la sera è calda e porta i suoi odori, cioccolato, origano, cannella, lo tiro col naso, è profumo francese, dice, tirando la erre dalla gola". 

Le foto a corredo di questo articolo sono state scattate da me l'anno scorso a Napoli. 



domenica 27 ottobre 2013

Donne che arrivano. Donne che partono. Donne vittime. Donne carnefici. Storie tumultuose, memorabili o miserabili. Dialoghi sboccati. Maratone alcoliche.

Ho appena finito di leggere "Donne" di Bukowski. Non è stata una lettura semplice. L'ho interrotto e ripreso varie volte.

Questo libro mi ricorda una sera d'estate a San Benedetto del Tronto. Sono entrata in una libreria del centro e, come al solito, mi sono lasciata guidare dall'istinto. Dalle sensazioni a pelle che mi trasmettevano gli incipit, le trame.Questa volta è l'immagine di copertina ad incuriosirmi. Una donna. Una sigaretta. Una bajour. Ombra e poca luce, appena soffusa. Le prime righe della trama raccontano che: "Le donne per Bukowski sono state un'attenzione costante e prepotente, un sogno e un bisogno che non si è mai interrotto, un desiderio che non ha mai conosciuto pause." 
Quando leggo cerco di immedesimarmi nella storia, nei personaggi, negli intrecci. Come avrei potuto immedesimarmi in un ubriacone, malato di sesso?

"Sono semplicemente un alcolizzato che ha deciso di fare lo scrittore per poter restare a letto tutti i giorni fino a mezzogiorno." scrive con il suo linguaggio sboccato sempre bisognoso di un altro whisky.

Foto by http://ilgrandebukowski.altervista.org/ 


La libreria è enorme, di tre piani. Porto con me il libro non ancora decisa a comprarlo ed esploro il negozio. Salgo al terzo piano e si avvicina un tipo, bassino e strano. Dice di essere il direttore e mi chiede che libri sto acquistando. È curioso. Glieli mostro e attacca bottone. Inizia a farmi domande anche personali e ad intessere una conversazione che riesco a bloccare solo dopo avergli detto di dover andare a cercare mio figlio. Giro l'angolo dello scaffale ed ecco che un altro marpione si avvicina a me con una scusa.  Giuro che non mi è mai successa una cosa simile in una libreria. Sembro essere già dentro il libro. Un libro che parla di incontri tra lo sguaiato e il grottesco. Uomini e donne al limite del reale.

Alla fine di questa strana situazione compro il libro. Piano piano familiarizzo con Hank Chinasky, alter ego dello scrittore, talmente pazzo delle donne che non ne ama nessuna.

Foto by http://thebaltimorechop.com/
Mi immergo nelle corse ai cavalli che ama frequentare, nelle sue grandi bevute, strizzo l'occhio alle sue molteplici amanti. Mi ritrovo in aeroporto ad aspettare insieme a lui la successiva vittima o carnefice. Ognuna descritta nel dettaglio. Ognuna  che si trattiene nella sua vita quel tanto che basta per trasmettergli a volte qualcosa a volte nulla. E intanto sullo sfondo i bassifondi americani e i suoi abitanti fanno capolino. Non è stato facile capire Bukowski. Il suo spirito dannato. La sua perdizione. Il suo trattare le donne come semplici oggetti del desiderio."Dovevo assaggiare le donne, per conoscerle davvero, per entrare dentro di loro. "


Foto by Zingarate

Dopo varie interruzioni e riprese l'ho finito. E forse alla fine ha conquistato anche me. Con la sua scrittura incalzante spesso mi ha inchiodata alle pagine di questo romanzo a tratti comico, esilarante, assurdo e dissacrante.

E a voi? Piace Bukowski?




[Dove non espressamente indicato testi e fotografie di Giorgia Barchi]

domenica 25 agosto 2013

Vi siete mai sentite sottovuoto?
Come se il corpo si mettesse a galleggiare, per conto suo, dentro una specie di sacchetto. E fuori dal sacchetto tutto il mondo. I pensieri schizzano per conto loro, fanno giri assurdi, prendono a frullare forte fino a diventare un niente.

Erica, da un po' di tempo si sente così. E anch'io.

Particolare della foto di Alessandro Omiccioli esposta ad Another View Photo Festival di Tolentino (MC).

Erica è una delle due protagoniste dell'ottavo romanzo di Chiara Gamberale "Quattro etti d'amore, grazie". Un titolo che mi ha colpito, così come la frase nel retro-copertina: "Quanto pesa quello che siamo? E quello che non abbiamo?"

Ve lo siete mai chiesti? Io ultimamente faccio spesso riflessioni arzigogolate che in realtà non mi portano molto lontano. Spesso le soluzioni le trovo dentro ai libri. Ci sono libri che sono come risposte. Altri che ti scatenano una serie infinita di domande. Come questo. Che ti fanno fare un viaggio dentro di te. Il tutto condito con una buona dose di ironia.

Alla base di questo libro c'è una dicotomia. Anche se sembra brutto dirlo, il mondo sin da quando siamo bambini, di divide in due: quelli strani e quelli normali. E gli uni vorrebbero essere gli altri. Ciò che si invidiano reciprocamente è ciò che più temono: i tranquilli l'incertezza, gli strani la stabilità.

Erica e Tea incarnano questa contrapposizione. Una strana, l'altra solida. Il destino le fa incontrare al supermercato dove si sbirciano i carrelli. Quanto è esotica la ragazza che compra solo una bottiglia di vino e una di salsa di soia? E quanto deve essere felice quella che compra la farina, lo zucchero, il latte, le uova? L'una immagina la vita dell'altra. Si descrivono senza parlarsi mai. Senza conoscersi realmente.

Erica, mamma di due figli, moglie apparentemente felice. Lavora in banca part-time. A casa sforna dolci. Gioca con i figli. Va a fare la spesa. Ma si sente sottovuoto da qualche mese. Il sottovuoto svanisce solo quando chatta con un vecchio compagno delle superiori.

Particolare della foto di Marco Mezzanotte esposta ad Another View Photo Festival di Tolentino (MC).

Tea, attrice famosa grazie ad una serie di successo che sta spopolando in tv. E' sposata con un attore di teatro. Un quasi fallito, molto più grande di lei. Non fanno sesso da anni ma lui è l'unico che non le fa sentire la sensazione di vuoto dentro, che sin da bambina la spinge a rubare nelle borse degli altri. Da un anno frequenta un personal trainer simpaticissimo, che la ama e farebbe tutto per lei.

Particolare della foto di Matteo Rigamonti esposta ad Another View Photo Festival di Tolentino (MC).

Erica vorrebbe un barattolo della stranezza di Tea, della sua eccezionalità. Vorrebbe essere più disinibita, saper ballare, scendere al supermercato in pigiama, girare il tantissimo mondo che c'è. Mentre Tea vorrebbe una buona dose della sua stabilità. Vorrebbe cucinare torte, allevare bambini, avere un marito che la ami. Nessuna delle due è soddisfatta della propria vita. Entrambe percepiscono l'esistenza capitata come una dannazione mentre, forse, è l'unica adatta a loro. Forse.

In tutto questo, quanto conta il ruolo della famiglia d'origine? Erica (la "normale") ha una famiglia incasinata. Non ha avuto punti fermi e quindi ha cercato la stabilità che ora però sembra stargli stretta ma che, probabilmente, non cambierà mai. Tea (la "strana") ha una famiglia d'origine solida alle spalle. Ha una lunga carrellata di pranzi della domenica da ricordare, quelli che le facevano diventare il sangue colla. Per questo lei rifugge la stabilità.

Ed entrambe, forse, aspettano un angelo che arrivi a salvarle. La salvezza è la fuga, in entrambi i casi. Ma questa fuga avverrà veramente? Lo scoprirete solo leggendolo!

Particolare della foto di Alessandro Omiccioli esposta ad Another View Photo Festival di Tolentino (MC).

E voi? Da quale parte vi sentite?
 
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